CALICANTO, appunti di antropologia e etnografia dell'educazione e della dominazione |
A proposito dell’approccio attraverso
le competenze.
Abbiamo bisogno di lavoratori competenti o di cittadini critici?
articolo in lingua francese originale in
Appel pour une école démocratique
Sulla scia di numerosi paesi europei, la Comunità Belga Francese si è
impegnata in una profonda revisione dei programmi a tutti i livelli dell’insegnamento
obbligatorio. L’obiettivo sbandierato è di rendere tali programmi
conformi alla dottrina del così detto “approccio per competenze”.
La tesi qui sostenuta è duplice. Da una parte quest’approccio sarà
incapace di realizzare le promesse d’emancipazione delle quali si vuole
che esso sia portatore. Dall’altra, e soprattutto, esso partecipa –
senza dubbio involontariamente nella testa dei suoi teorici - di un vasto processo
di strumentalizzazione della Scuola al servizio di un’economia in cerca
di deregolamentazione e di dualizzazione sociale.
Del concetto di competenza esistono tante definizioni quanti sono gli autori
che hanno scritto sul soggetto. Se dovesse servire una prova dell’estrema
flessibilità di questa nozione – e conseguentemente delle modalità
con cui viene messa in atto – eccone una. Nei testi emanati dalla Comunità
francese, la definizione più corrente è quella adottata Romainville
e compagni: «una competenza è un insieme integrato e funzionale
di sapere, saper-fare e saper-divenire, che permette, di fronte a una vasta
categoria di situazioni, di adattarsi, di risolvere problemi e realizzare progetti»
[BERNAERDT, ROMAINVILLE, et. all].
La dottrina detta de «l’approccio per competenze» è
volta essenzialmente a mettere le competenze al centro delle preoccupazioni
dell’insegnante. E questo, ci viene detto, in opposizione a «l’ampliamento
delle conoscenze». Tale approccio non è dunque riducibile ad una
pedagogia: esso integra chiaramente una determinata visione degli obiettivi
dell’insegnamento. A questo titolo esso è, d’altronde, parte
integrante del decreto della Comunità francese sulle “Missioni
dell’insegnamento dell’obbligo”.
Tuttavia, l’approccio per competenze implica anche un certo tipo di approccio
pedagogico, dato che esso raccomanda di mettere in linea le pratiche di insegnamento
con il nuovo obiettivo: in quanto capacità di risolvere dei problemi,
la competenza non può che acquisirsi mettendo il «discente»
- soggetto del proprio apprendimento in opposizione all’allievo, presunto
passivo – «nella condizione» di far fronte a problemi di un
dato tipo, affinché esso si eserciti a «mobilizzare» il proprio
saperi e saper-fare in determinate categorie di situazioni concrete.
Questa pratica non è scevra dal presentare qualche similitudine con quelle
proposte dalle scuole pedagogiche del movimento costruttivista. Anche qui si
insiste spesso sul ruolo attivo dell’allievo e sulla necessità
di metterlo «nella condizione di ricerca» grazie alla messa in atto
di “cantieri di problemi”. Vedremo comunque più avanti che
la somiglianza si ferma qua.
Un progetto generato dagli ambienti economici
I pensatori dell’approccio per competenze non nascondono la stretta filiazione
della loro dottrina dalla recente evoluzione dei tentativi e dei discorsi del
mondo economico in materia d’insegnamento. Così, per Romainville
e per i suoi co-autori, «ognuno si aspetta dalla scuola che essa non si
acconti di un apporto formale di contenuti, non corrispondente più di
fatto nè alle aspettative dei giovani nè alle richieste del mondo
economico» [BERNAERDT, ROMAINVILLE, et. all]. Per Jean-Marie De Ketele,
«è in effetti il mondo socio-economico che ha determinato la nozione
di competenza, perchè gli adulti che la scuola ha formato non erano sufficientemente
adeguati ad entrare nella vita professionale» [DE KETELE 2000].
François Perrenoud, che figura tra i maestri di pensiero dell’approccio
per competenze, ci rassicura certamente quanto al fatto che tale approccio sarà
«riduttore per fare dell’interesse del mondo scolastico per le competenze,
il semplice segno della sua dipendenza dalla politica economica». Egli
non riconosce di meno l’esistenza di “una giunzione tra un movimento
dall’interno e un richiamo dall’esterno. L’uno e l’altro
si nutrirebbero di una forma di dubbio sulla capacità del sistema educativo
di rendere le nuove generazioni capaci di affrontare il mondo di oggi e quello
di domani.» [PERRENOUD 2000, b].
Quale sarebbe dunque questo «mondo di oggi»?
Il nostro ambiente economico è caratterizzato da due elementi: un’estrema
instabilità e una forte dualizzazione sociale. L’instabilità
genera dall’inasprimento delle lotte concorrenziali, dalle ristrutturazioni, dalle chiusure e delocalizzazioni che ne risultano, dal ricorso accelerato
alle più effimere innovazioni tecnologiche (tanto nella sfera della produzione
che in quella dei consumi). In questo contesto, una delle principali richieste
del mondo padronale è quella relativa alla flessibilità: flessibilità
del mercato del lavoro, flessibilità professionale e sociale dei lavoratori,
flessibilità dei sistemi di educazione e di formazione, adattabilità
del consumatore.
Oggi il mercato del lavoro è ancora fortemente regolato sulla base delle
qualifiche, quindi dei diplomi. Il diploma è un insieme riconosciuto
di saperi e di saper-fare, che risulta oggetto di negoziati collettivi e conferisce
diritti in materia di salario, di condizioni di lavoro o di protezione sociale.
Per permettere una rotazione più flessibile di manodopera, il padronato
cerca ormai di sciogliere questo accoppiamento rigido tra qualifiche e diplomi
al fine di sostituirvi la coppia competenza-certificazione modulare. Qui Perrenoud
dà prova di una grande lucidità: «Il riferimento alle competenze
autorizza una loro costante rivalutazione, alla stregua delle «ristrutturazioni
dell’apparato produttivo», del cambiamento tecnologico, dell’organizzazione
e della divisione del lavoro. Nel lavoro salariato, l’approccio per competenze
permette anche di sciogliere solidarietà statutarie e di individualizzare
le ricompense e le carriere aziendali, a pari qualificazione formale. Esso contribuisce
a ricomporre la logica delle qualifiche in una duplice logica di valorizzazione
e selezione” [PERRENOUD 1999]. Sfortunatamente questa lucidità
non costa niente perché ci troviamo precisamente là, in un dominio
in cui i due “approcci per competenza”, quello che riguarda la Scuola
e che sostiene Perrenoud e quello che riguarda l’organizzazione del mercato
del lavoro e che desidera il padronato, non si implicano affatto l’uno
con l’altro. Si può perfettamente annullare il diploma senza cambiar
niente nell’insegnamento e si può altrettanto facilmente rifondare
la Scuola sulla base delle competenze senza toccare il diploma . Focalizzando
la similitudine degli approcci su questo punto preciso, Perrenoud ha buon gioco
nel pretendere che non si tratti, giustamente, che di una somiglianza e non
di una stretta interdipendenza.
Lavoratori flessibili e adattabili
Ma la domanda di flessibilità non si ferma all’organizzazione del
mercato del lavoro. Per il lavoratore, l’instabilità tecnologica
e industriale si traducono in incessanti cambiamenti dell’ambiente di
produzione, del posto do lavoro, dell’impiego se non addirittura della
professione. Per assicurare una costante produttività della manodopera
è quindi necessario che il lavoratore sia esso stesso dotato di una grande
flessibilità. Egli deve aver integrato le competenze che gli permettono
di adattarsi a situazioni nuove, di acquisire nuovi saperi sul filo della propria
carriera, deve essere disposto ad investire di proprio a tal fine. In breve,
egli deve essere in grado di mobilitare sapere, saper-fare e saper-essere per
adattarsi e per risolvere problemi complessi e cangianti. Questo è precisamente
ciò che si propone di fare l’approccio per competenze nel dominio
dell’educazione: «l’allievo dovrebbe essere capace di mobilitare
le proprie acquisizioni scolastiche al di fuori della scuola, in situazioni
diverse, complesse, imprevedibili» [PERRENOUD 1995 b].
Qui non si tratta più di somiglianza, ma di una reale identità
tra gli obiettivi dell’approccio per competenze e i tentativi del mondo
economico (identità che, per il momento, ci accontenteremo di constatare
senza giudicarla) .
Quando Perrenoud riconosce questa identità, lo fa sulla punta delle labbra,
svuotandola del suo carattere storico e perfino con una punta angelica: «il
fascino del mondo dell’economia per le competenze non è soltanto
sul versante della negazione delle qualificazioni (….). C’è
nel mondo dell’impresa, anche se c’è per una necessità
ben comprensibile più che per un umanesimo virtuoso, una forma di riconoscimento
del lavoro reale e della sua distanza rispetto al lavoro prescritto, una presa
di coscienza del fatto che se gli operatori meno qualificati non esprimono nel
lavoro intelligenza, creatività e autonomia, la produzione ne risulterà
compromessa» [PERRENOUD 2000 a].
Ma questa «presa di coscienza» padronale non cade dal cielo. Essa
è il risultato delle mutazioni economiche descritte sopra. Non dirlo
permette di non dover spiegare perché il successo dell’approccio
per competenze nel campo scolastico coincida storicamente con questi rivolgimenti
economici.
Inoltre, egli è abile nel chiamare «intelligenza, creatività,
autonomia» le competenze che dovrebbero assicurare la flessibilità
e l’adattabilità dei lavoratori. Perché, chi oserebbe contestare
che il ruolo della Scuola è di condurre i giovani all’intelligenza,
alla creatività e all’autonomia? Ma, così facendo, ci si
contenta di nascondere il vero dibattito sotto parole prive di un gran contenuto.
Certo, la comprensione del funzionamento di un sistema di guida stradale informatizzata
e la presa di decisioni rapide sulla base di informazioni fornite da un computer,
in vista di un intrufolarsi tra gli ingorghi per andare a riempire distributori
di Coca-Cola ai quattro angoli della città, necessita di determinate
forme di intelligenza, creatività e autonomia. Ma a chi si vuol far credere
che si tratterà delle medesime forme di intelligenza, di creatività
e di autonomia che permettono, per esempio, di capire gli effetti della globalizzazione
dell’impresa e dei mercati sulla società per contrastarli?
Dualizzazione del mercato del lavoro
Ora, si dà che nel corso del decennio a venire gli Stati Uniti intendano
creare circa 300.000 impieghi nel riempimento di distributori automatici di
bevande e alimenti. Più in generale, il 56 % degli impieghi che conosceranno
la maggiore crescita numerica negli USA saranno di tipo «short term on
the job training» (formazione di breve durata, sull’unghia). Tocchiamo
qui un secondo importante aspetto dell’ambiente economico attuale: la
dualizzazione del mercato del lavoro che si traduce in una domanda crescente
di manodopera altamente qualificata ma anche, paradossalmente, in una massificazione
degli impieghi precari a bassissimo livello di qualificazione.
Pertanto, quando Perrenoud cui assicura che l’approccio per competenze
«risponde a un’esigenza di efficacia da parte dell’insegnamento,
di adeguamento maggiore dell’apprendimento scolastico alle situazioni
che si incontrano sulla strada verso il lavoro e fuori dal lavoro» [PERRENOUD
1995 b], vien di fatto di interrogarsi. Per una parte notevole della popolazione,
tale “adeguamento” passa per competenze di livello elevato, che
implicano conoscenze generali in grado di permettergli effettivamente di utilizzarle
come strumento di potere. Ma per un’altra parte, ancora più numerosa,
l’ «esigenza di efficacia» e di adeguamento dell’apprendimento
«alle situazioni che si incontrano sulla strada verso il lavoro»
implica una riduzione a poche competenze di carattere generale – saper
leggere, scrivere, fare di conto, comunicare e servirsi di una interfaccia informatica
– e sociali – disciplina, autonomia e flessibilità, per esempio.
Quanto gli ambienti economici reclamano oggi, è la razionalizzazione
dell’insegnamento in funzione dei loro interessi. Tale razionalizzazione
dovrebbe permettere di ridurre i costi complessivi assicurando una maggiore
differenziazione e una flessibilità crescente (tanto dello stesso sistema
educativo che della mano d’opera da esso prodotta). Questo non è
sicuramente l’obiettivo dell’approccio per competenze, almeno nella
testa della maggior parte dei pedagoghi che lo difendono. Ma la domanda principale
che si pone è di sapere se le loro buone intenzioni non saranno poi riciclate,
piegate al profitto di questi interessi mercantili. Bisogna dunque studiare
le modalità pratiche della messa in atto di questa dottrina, per analizzare
in che misura essa presta il fianco a un tale recupero.
L’abbandono dei saperi
Il primo rischio inerente all’approccio per competenze è lo spostamento
del centro di gravità da esso indotto, dai saperi verso i saper-fare.
Nella pedagogia dell’approccio per competenze, la messa al lavoro degli
allievi su cantieri di problemi non è concepita come un metodo (tra altri)
in grado di dare un senso al sapere, permettendo la sua costruzione attraverso
o per gli allievi, in grado di restituire tale saperi nella sua storicità
e permettendone così una comprensione profonda. La metodologia diviene
un obiettivo in sè. Lo scopo non è più sapere, ma saper
fare. Questo distingue fondamentalmente l’approccio per competenze dall’eredità
delle pedagogie costruttiviste che vanno da Vigotsky, passando per Freinet,
fino ai pedagoghi progressisti degli anni ’70 (come quelli del GFEN in
Francia). In quel caso il ricorso alla pratica viene messo al servizio dell’acquisizione
di conoscenze e, soprattutto, dell’accesso ad una comprensione profonda
di queste conoscenze. Invece, nell’approccio per competenze si opera un
completo capovolgimento: sono i saperi che sono ormai messi al servizio della
pratica metodologica. Perrenoud: «Le competenze non volgono le spalle
ai saperi, perchè esse non possono emanciparsene, ma è necessario
accettare di insegnare meno conoscenze se si vogliono realmente sviluppare competenze»
[PERRENOUD 1999].
Cambiando lo stato, diventando un fine e non più un mezzo, la pratica
di «far lavorare sui cantieri di problemi» assume un carattere dogmatico.
Sentiamo Perrenoud: «Si impara a camminare camminando, a cantare cantando.
Perché si dovrebbe imparare a riflettere, a osservare, a immaginare,
a comunicare, a analizzare, a negoziare altrimenti che non praticando tali attività
in situazioni molto diverse, dato che la competenze non è legata a un
solo tipo di contesto, di situazione o di rapporto?» [PERRENOUD 1999].
Certamente, si impara a camminare camminando. Ma per quanto riguarda il canto
già non è più vero, meno ancora se si punta ad un livello
elevato. E’ allora necessario passare attraverso vocalizzi, studio del
solfeggio, ascolto… attività di apprendimento altrettanto essenziali
che non sono canto. L’idea secondo cui l’apprendimento passerebbe
essenzialmente per la pratica non è più completamente vera quando
si tratti di saperi complessi. Non s’impara a servirsi degli integrali
solo calcolando degli integrali, ma assimilando prima sul piano teorico i concetti
di funzione, di differenziale, di primitiva, di limite e, infine, di integrale.
Qui la comprensione esige un andare e tornare permanente tra la pratica (per
scoprire concetti e per sviluppare competenze strumentali) e la teoria (per
sistematizzare e passare a livelli di astrazione sempre più elevati).
Questo dogmatismo pedagogico è ben percepibile nei nuovi programmi che
arrivano oggi nell’insegnamento secondario francofono e belga. L’approccio
per competenze vi domina in modo talmente oltraggioso che si abbandona spesso
ogni velleità di una programmazione articolata della materia.
Perrenoud sostiene questa deriva e la legittimizza: «Non si può
insegnare per competenze sapendo in agosto di cosa si tratterà a dicembre.
Questo dipenderà dal livello e dal coinvolgimento degli allievi, dai
progetti che avranno preso corpo, dalla dinamica del gruppo-classe o dei suoi
sotto-gruppi. Questo dipenderà soprattutto dagli avvenimenti precedenti,
perché le situazioni-problemi ne solleveranno ulteriori. E’ decisamente
possibile e sicuramente necessario tagliar corto su certi aspetti e ripartire
da tutt’altro punto. Ma non ci si può fermare all’eventualità
di costruire tutto l’anno scolastico passo dopo passo, perché una
questione ne genera un’altra, un progetto che si compie suggerisce un’altra
avventura. Avventura? La parola può sembrare troppo forte trattandosi
di un’istituzione anche burocratizzata e obbligatoria (socialmente, se
non legalmente) che è la Scuola . E’ quindi proprio di avventure
intellettuali che si tratta, di imprese di cui non si conosce in anticipo nulla
sull’argomento, in cui nulla, neanche il professore, è mai stato
vissuto esattamente nei medesimi termini» [PERRENOUD 1995 c]. Queste parole
non mancheranno di sedurre tutti coloro che mordono il freno nelle nostre opprimenti
istituzioni scolastiche, L’avventura è accattivante. Ma questo
non deve farci dimenticare che essa può anche essere pericolosa. Se alcuni
vi troveranno divertimento e profitto, altri rischieranno di perdervisi. Gli
uni, gli altri? Come fa Perrenoud a non capire che quelli che ne usciranno
bene sono quelli che troveranno altrove quel rigore e quella strutturazione
dei saperi che non troveranno a scuola? Come fa a non essere cosciente della
frattura sociale che i suoi eccessi pedagogici ci stanno apparecchiando?
Pericoloso perchè impossibile a realizzarsi
Spinto fino al suo obiettivo, fino alla visione estrema idealizzata da un Perrenoud,
l’approccio per competenze è senza dubbio difendibile. Ma nelle
condizioni attuali di funzionamento della Scuola e della società, esso
è impraticabile. Esso pone un obiettivo inaccessibile e inoltre il suo
(tentativo) di messa in pratica approderà all’opposto esatto delle
finalità ufficialmente perseguite.
Nel lungo estratto che segue, Perrenoud per di più dimostra di essere
pienamente cosciente dell’impossibilità pratica di attuare realmente
ciò che propone. «Si presentano numerose strategie», dice.
«La più conservatrice è di partire dai saperi attualmente
insegnati e di cercare di definire delle competenze che potrebbero mobilizzarli.
[Queste strategie] aggiungono un verbo di azione alle conoscenze teoriche (per
esempio “sapersi servire del principio di Archimede”) [e] si limitano
ad agghindare i contenuti abituali degli strumenti di competenza, senza riflessione
sulle fondamenta». «Una seconda strategia, continua Perrenoud, consiste
nel lasciare i saperi alle discipline e nel definire delle “competenze
trasversali”». «La terza strategia è enunciare delle
capacità talmente generali che non si sappia nemmeno più se esse
siano disciplinari o trasversali: sapere analizzare, argomentare, ragionare,
osservare, esprimersi, negoziare sono senza dubbio capacità utili, ma
rinviano ad un’enorme diversità di materie, di pratiche e di situazioni».
Perrenoud conclude: «queste tre strategie, per quanto discutibili esse
siano, occupano una posizione privilegiata nelle odierne riforme dei programmi
in termini di competenze. Esse sono, allo stesso tempo, le meno promettenti
e le più probabili». Egli viene dunque a raccomandare di abbandonare,
per il momento, queste pericolose riforme? Affatto. Propone di avventarsi verso
l’ignoto rassegnandosi in anticipo: «queste modalità prudenti
di impugnare i problemi sono probabilmente le sole praticabili, in un primo
tempo».
Dualismo sociale della Scuola
Ora, in un contesto di de-finanziamento, di sovraccarico di lavoro, di classi
super-popolate, di de-motivazione dei docenti e degli allievi, di crescente
dualizzazione sociale, il dogmatismo pedagogico rischia fortemente di volgersi
in formalismo. Volontariamente o involontariamente, l’idea che si induce
nella testa degli insegnanti è che il metodo è tutto e che l’accesso
alle conoscenze diviene secondario, accessorio. Per Perrenoud, «La pratica
orientata verso la formazione di competenza esige dallo studente un coinvolgimento
molto più forte nell’impresa. Non solo una presenza fisica e mentale
effettiva, richiesta tra l’altro sia dagli allievi che dagli insegnanti,
ma un investimento che implica immaginazione, ingegno, susseguirsi di idee,
etc.» [PERRENOUD 1995 c]. Ma se questo «coinvolgimento» e
questo «investimento» fanno difetto, allora la pratica rischia di
passare accanto ai suoi obiettivi. Non resta quindi che fare del bricolage pedagogico,
costoso quanto a tempo e ad energia, in cui l’allievo impara meno, col
pretesto di imparare meglio. Tra gli allievi più motivati (ovvero nelle
scuole riservate ai giovani dell’elite sociale) la pratica forse potrà
approdare a preservare le conoscenze sviluppando la capacità di metterle
in atto. Ma tra tutti gli altri, queste conoscenze marcheranno il passo al profitto
di vaghe competenze che riposeranno su poche solide fondamenta. Quelli che lavoreranno
in massa nei fast-foods di domani, avranno imparato a comunicare con i clienti,
ma non avranno imparato il francese e ignoreranno del tutto la letteratura.
Sapranno fare senza errori un addizione, ma l’astrazione matematica gli
resterà estranea. Potranno applicare la legge di Ohm, ma non capiranno
cos’è un campo elettrico. E, aiutandosi con un foglio di lavoro,
potranno situare i dinosauri lungo una scala temporale, ma potrebbero non avere
mai sentito parlare di Karl Marx.
I nuovi programmi, in cui le conoscenze strutturali vengono relegate al secondo
posto, dopo le competenze e il metodo, aprono la porta ad un’interpretazione
differenziata. Le scuole frequentate dai ragazzi e dalle ragazze dell’università
non interpreteranno questi programmi come le scuole dei bambini e delle bambine
del popolo.
L’interpretazione dei livelli di competenza da raggiungere è, ben
più che un enunciato dettagliato in materia diversificabile all’infinito.
Sapere “comunicare” è un saper fare di alto livello, che
esige “l’integrazione di risorse cognitive multiple nel trattamento
di situazioni complesse» [PERRENOUD 1995 b]. E’ dunque una competenza.
Ma la comunicazione non implica le stesse esigenze se si tratta di dibattere
dell’impatto della mondializzazione con un quadro del FMI o se si tratta
di chiedere «il vostro hamburger lo volete con cipolla o con ketchup?».
Come si potrà impedire all’insegnamento una deriva verso un’interpretazione
dualista delle competenze, prendendo come criterio il presunto destino sociale
dei bambini dei quali esso è responsabile, a dire, in definitiva, la
loro origine sociale? Così, l’approccio per competenze rischia
di diventare un elemento ulteriore nel processo di dualizzazione della Scuola,
un elemento di rinforzo per una selezione sociale gerarchizzante, alimentata
da una deregolamentazione in ogni direzione.
Sapere per sapere o sapere per fare?
Il mio proposito non è quello di rifiutare ogni strumentalizzazione dei
saperi. Dopo tutto, a che serve imparare bene se ciò che si impara non
serve a niente? Se i saperi sono così importanti ai miei occhi, non è
perché gli attribuisco un qualsiasi valore astratto o sentimentale, ma
perché vi vedo un importante mezzo d’azione. Non c’è
pratica che sia efficace senza teoria. I saperi danno la forza di comprendere
il mondo e, inoltre, di partecipare alla trasformazione di questo mondo. Essi
rappresentano uno strumento di potere. E’ d’altra parte evidente
sia perché essi siano rimasti al centro delle preoccupazioni della Scuola,
fintanto che questa era riservata ai giovani delle classi dirigenti. Per 150
anni nessuno si è mai preoccupato di sapere se gli studenti dei collegi
e degli atenei avessero acquisito la “competenza di mobilitare le loro
conoscenze nei problemi complessi e vari”. L’importante era che
essi accedessero alle conoscenze al fine di disporne, all’occorrenza,
per esercitare la propria autorità nel posto che avrebbero occupato nella
società. Dal momento in cui l’insegnamento generale si è
ampiamente aperto ai figli del popolo, ci si preoccupa improvvisamente di strumentalizzare
questi saperi.
Perrenoud s’interroga: «di che avranno bisogno i giovani per affrontare
il secolo che si annuncia? Di saperi, senza dubbio. Ma di saperi viventi, mobilizzabili
nella strada verso il lavoro e fuori del lavoro, capaci di essere trasferiti,
trasposti, adattati alle circostanze, ripartiti, ricomposti. L’idea della
competenza non sostiene altro che la pratica di fare dei saperi scolastici degli
strumenti per pensare e per agire» [PERRENOUD 1999]. E’ estremamente
generoso. Ma il problema principale, per la maggioranza dei giovani che escono
dalla Scuola di oggi, è di essere forniti di conoscenze scientifiche,
storiche, sociali, tecniche, culturali e di non sapere come usarle? Oppure il
problema è che essi escono dalla Scuola conoscendo poco, troppe poche
cose. Sempre meno se si parla di conoscenza reale, cioè di una comprensione
approfondita.
Questo sì, testimonianza sicura del fallimento della Scuola. Ma la causa
non deve essere ricercata negli obiettivi dichiarati (trasmettere saperi), quanto
piuttosto nella carenza delle pratiche e – i due aspetti sono indissociabili
– nell’assenza dei mezzi e delle condizioni materiali per mettere
in atto tali pratiche.
Conclusione
Gli obiettivi dichiarati dai sostenitori dell’approccio per competenze
sono generosi. Ma nelle attuali condizioni di funzionamento della Scuola è
impossibile metterli in pratica. Il ri-centramento degli obiettivi sulla capacità
di «mobilitare” saperi, piuttosto che sull’acquisizione dei
saperi, porta al dogmatismo pedagogico. Si verifica allora, nei fatti, un rovesciamento
dei fini e dei mezzi: la metodologia – messa al lavoro dagli allievi su
cantieri di problemi – non è più al servizio dell’accesso
alla comprensione dei saperi, ma questi (i saperi) si trovano relegati al rango
di strumenti del metodo. Tale de-qualificazione dei saperi arriva fino all’abbandono
degli enunciati articolati di materia nella definizione dei programmi.
In questo modo, l’approccio per competenze, per generoso che sia nelle
sue intenzioni, partecipa di un vasto movimento di deregolamentazione dell’insegnamento,
ed è reclamato dagli ambienti economici. Con la scusa della flessibilità,
questi assegnano alla Scuola la missione di inculcare competenze trasversali,
interdisciplinari, assicurando la capacità di adattamento dei lavoratori
ad un ambiente economico e tecnologico in mutazione permanente. D’altra
parte, la deregolamentazione indotta dall’ “afflato artistico”
che caratterizza gli obiettivi cognitivi nei nuovi programmi, favorisce lo sviluppo
duale dell’insegnamento. Questo risponde ad un altro “bisogno”
dell’economia: l’adeguamento dell’insegnamento all’evoluzione
duale del mercato del lavoro.
Nico Hirtt é uno dei più impegnati studiosi della scuola. E' uno degli animatori dell'«appel pour une école démocratique». Questo articolo può essere letto nella versione originale in francese sul sito di questa associazione (www.ecoledemocratique.org).
Questo articolo é stato tradotto ed apparso
in |
Bibliografia
indice Calicanto