Ditemi …
Alto potenziale cognitivo ed intellettualizzazione delle emozioni.
casi clinici 4
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Perché si fa fatica a riconoscere l’intelligenza dei bambini?
Perché rispetto all’alto potenziale cognitivo di taluni bambini
si fatica ad evitare un qualsiasi approccio impregnato da transfert negativo?
Perché, per la maggior parte degli operatori educativi (docenti, pedagogisti,
psicologi), l’intelligenza di un bambino plusdotato deve essere sempre
ed inequivocabilmente un segno di malattia relazionale?
Perché, per la maggior parte degli operatori educativi (docenti, pedagogisti,
psicologi), l’intelligenza di un bambino plusdotato deve essere svalutata.
“Si é intelligente però ...”
Perché un bambino ad alto potenziale cognitivo deve essere sempre considerato
come frutto di una negazione delle sue emozioni?
Perché di fronte ad un bambino intelligente gli operatori mortificano
la sua individualità e la sua specificità affettiva, affermando
che la sua intelligenza é solo il segno di una intellettualizzazione
delle relazioni e delle emozioni, o di una intellettualizzazione delle dinamiche
e delle problematiche familiari?
Purtroppo per una grande parte di bambini ad alto potenziale cognitivo i problemi
affettivi e relazionali cominciano proprio quando hanno la disavventura d’imbattersi
con le figure che devono occuparsi dell’infanzia.
E’ notorio che ci sono dei dislessici plusdotati e dei debili mentali
che leggono.
Quale allora lo statuto dell’intelligenza?
Il persecutorio controllo dei meccanismi di codifica e trascodifica e di dizione,
i processi computazionali, gli algoritmi automatizzati, la creazione di relazioni,
la ricerca di immagini astratte, o che altro?
L’iperadattamento ai ritmi scolastici, alla noia della ripetizione, all’attesa
composta della prossima scheda? Oppure all’espressione “terapeutica”
dei conflitti familiari, dei conflitti personali, ultima frontiera di un voyeurismo
educativo?
Il tema della supposta “intellettualizzazione” dei bambini, pur
vero in qualche caso, cela malamente, e malauguratamente, un approccio banalizzante
dell’intelligenza, un approccio preconcetto - essere intelligenti é
considerato notoriamente un segno nevrotico -.
Un bambino che a scuola “non va” ... Generalmente l’origine
del disagio, “la colpa”, é sempre sua. Al meglio, una caritatevole
pulsione protettiva storna la colpa sui suoi genitori.
Solo in casi al ribasso del livello degli apprendimenti viene concessa una differenziazione
dei programmi. Mai al rialzo. Insomma un programma scolastico può sempre
essere troppo difficile, per alcuni, ma mai troppo facile, per altri.
Prevale una logica della svendita. Appunto … la svendita dell’intelligenza.
Come dire, posso solo riconoscere la stupidità, mai l’intelligenza
(riconoscere=individuare).
In queste condizioni, considerare un bambino nella sua interezza ha del miracoloso.
Ditemi allora si tratta di un problema cognitivo o si tratta di un problema “d’intellettualizzazione delle relazioni e delle dinamiche familiari”?
Ecco due esempi.
Un bambino di terza elementare redige un testo, descrittivo, di circa 14 pagine
manoscritte fitte fitte.
Gli errori ortografici si contano sul numero di una mano: due.
Qualche giorno seguente la consegna del testo, il ragazzo, come tutti i suoi
compagni, ha una nuova consegna. Deve ricopiare “a bella” tutto
il testo. A domanda dei genitori il docente risponde: è vero, non c’è
nessun scopo educativo e didattico, ma deve farlo come tutti.
Non vi racconto la crisi e la delusione patita, il tempo festivo (domenicale)
passato a ricopiare il testo, pezzo per pezzo, tale e quale.
Fondamentalmente due gli esiti, temporalmente successivi.
Il primo, una sonora frustrazione, una profonda umiliazione nel non vedere riconosciuto
il proprio sforzo, nel non vedere riconosciuta la propria produzione. Rabbia
repressa, rimossa, tristezza, rinchiusa in una postura oramai irrigidita.
Il secondo? L’iperadattamento. Questo ragazzo non ha mai più prodotto
nessun tipo di testo più lungo della dovuta paginetta.
Ditemi allora? Dove stava la festa? Quale “intellettualizzazione delle
dinamiche e problematiche familiari”, ha subito, quella domenica, quel
ragazzo?
Il secondo esempio tratta di un bambino alla scuola dell’infanzia. Di
età 5 anni circa, quel bambino disegna. Disegna un disegno abbastanza
tipico nei suoi tratti formali. Una casetta in basso, un prato, un albero, le
montagne in alto, il cielo azzurro, il sole. Sino a qui nulla da eccepire, come
tutti i bambini disegna questo paesaggio identificando un basso e un alto. Come
tutti, come da “modello”, appunto.
Poi succede qualcosa. Quel bambino comincia a colorare con un colore verde tutto
quello spazio che, tra il basso e l’alto – la fascia orizzontale
mezzana del foglio per intenderci – che, d’abitudine i bambini di
quella età, e pure più grandicelli, lasciano in bianco.
Intellettualmente, diremmo, scopre i rapporti topologici di vicinanza, i rapporti
proiettivi davanti-dietro, i rapporti euclidei di distanza. Si pone un problema
cognitivo …
Quale la reazione dei compagni di classe? “Ma stai colorando il cielo
di verde”. Opponendo, alla visione del compito del bambino, una altra
visione; quella che sa che l’aria è trasparente e che quindi quello
spazio va lasciato vuoto …
“Ma stai colorando il cielo di verde” continuano i compagni. E il
bambino: “ma no guarda … vedi … guarda … i prati continuano,
la terra non si ferma, c’è sempre qualcosa … E loro: “Ma
stai colorando il cielo di verde”. E lui, per cercare di risolvere quel
conflitto cognitivo, comincia a colorare pure un lago, riproducendo le caratteristiche
morfologiche della zona in cui vive …
E loro chiamano la maestra: “sta colorando il cielo di verde”.
“Fa il lago in cielo”
E la maestra? … per farla breve, incapace di sostenere una ricerca cognitiva,
una intelligente ma purtroppo solitaria (e precoce) ricerca intellettuale, per
evitare problemi e conflitti, taglia corto. “Non si fanno i prati in cielo”.
Ritira il foglio al bambino - reo di troppo realismo - e quello che si è
visto si visto.
Quale la reazione del bambino?
Dite.
Frustrazione? Emozioni tarpate dalla intellettualizzazione delle dinamiche familiari
e dalla intellettualizzazione delle emozioni?
Quale l'alternativa concreta per il bambino? Piangere, esprimere l'orgoglio
ferito, cercare conforto, cercare sostegno emotivo? O intellettualizzare le
dinamiche scolastiche?
O più semplicemente un blocco di tristezza ed umiliazione?
Immaginate voi.
Considerare un bambino nella sua pienezza mi sembra sempre più qualcosa del miracoloso.
Giovanni Galli
Novembre 2007
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indirizzo dell'autore
Giovanni Galli, psicologo, psico-pedagogista,
email: ggalli@ticino.edu