CALICANTO, appunti di antropologia e etnografia dell'educazione e della dominazionenumero 0"REALISMI?" |
Il bambino disegna non ciò che vede, ma ciò che sa,
così dice G. Anceschi (1992), sulla traccia di uno scritto del
1958 di Henri Breuil, che esamina il mondo originario dell'immagine e
della rappresentazione. Il bambino disegna l'idea, la
Vorstellung, che si é fatto delle cose, non la
visione che ne ha attraverso gli occhi. E così facevano i
nostri antenati. Il simbolismo, o il "realismo intellettuale", come
Breuil dice per la rappresentazione schematica, che evolve verso
l'astrazione del simbolismo grafico con cui si evocano le cose ma
anche si esprimono relazioni, precederebbe quindi geneticamente il
"realismo visuale", che implica il saper dimenticare ciò che
si sa o meglio l'idea che ci si é fatta delle cose.
Il "realismo intellettuale" non solo precede ma si oppone al
"realismo visivo" che si apprende più tardi, e implica
attenzione analitica e selettiva e il saper mettere fuori gioco o
fuori campo, l'interprete o l'elaboratore, la mente, per ascoltare e
far agire solo l'operatore, quindi la mano in relazione all'occhio.
In questa opposizione viene collocato il processo che differenzia non
solo l'infanzia, ma il mondo e la mentalità o pensiero
selvaggio da quello adulto e "colto".
In realtà le cose sono molto più complesse,
circolarità e retroazione rendono inseparabili mondo
esperienziale e categorie mentali, vediamo ciò che la mente si
aspetta di vedere mentre le nostre categorie sono espressione dei
processi vitali che le istituiscono. E allora ciò che fa il
fanciullo va esaminato di per sé e per ciò che ci dice:
più che il pensiero selvaggio coinvolge l'intera visione
antropologica. Del resto già Breuil osservava che ciò
che spinge il fanciullo a disegnare-scarabocchiare é una sorta
di pulsione del corpo, un'affermazione della propria presenza nel
lasciare una traccia, che si può constatare o far constatare
all'altro. E quindi siamo al di fuori di ogni preoccupazione
"realistica". Siamo in quello della simbolizzazione e
dell'espressione di sé, nell'atto della realizzazione
individuale, in quello che saussurianamente é l'ambito della
"parole", in cui si colloca anche il l'affermazione di sé e la
domanda di riconoscimento rivolta all'altro. L'universo del disegno
come quello della parola é quello della soggettività.
Disegnare come parlare é produrre non solo segni, ma elementi
che indicano all'altro che noi siamo e chi noi siamo. Il soggetto si
serve della parola come del disegno per rappresentare se stesso nei
modi in cui vogliamo esser visti. E' la grande impresa del bambino
quella di riuscire a mettere la sua parola e il suo segno in un
discorso preesistente. Un essere giunge all'esistenza soggettiva solo
se gli ascendenti lasciano posto alla sua parola e presenza.
Il fatto che l'essere umano acceda all'esistenza soggettiva solo se
conta agli occhi di un altro contrassegna per tutta la vita la sua
attività di parola. Ogni parola implica una richiesta di
riconoscimento: chiede che si prenda atto della sua esistenza e si
colloca rispetto all'altro nell'ambito di un "Chi sei per me, chi
sono per te".
Il "realismo intellettuale" o, come si é soliti dire, il
simbolismo e l'astrattismo vengono dopo nel processo comunicativo e
nella ricerca di approvazione, ma la dimensione e motivazione ludica
restano tuttavia prevalenti.
Anati, interrogando e classificando i segni della preistoria, ha
messo in rilievo la presenza di segni aniconici, che non hanno
nessuna valenza rappresentativa ne cognitiva, ma esprimono emozioni,
stati d'animo, come avviene nell'arte delle avanguardie
novecentesche, e rendono visibile l'invisibile.
E non dobbiamo dimenticare la dimensione dell'imposizione del proprio
corpo nella traccia e la dimensione ludica che presiede al grafismo e
ne fa un'operazione fine a se stessa, per il piacere di giocare e per
il godimento estetico della ripetizione e della variazione, prima o
diversamente dall'avere intenti comunicativi o di rappresentazione e
insieme con essi. Se possiamo ammirare i grandi animali-potenze nel
loro incanto grafico, é il loro mistero che ci intriga e sono
le tracce della mani che ci commuovono ed esercitano su di noi la
maggiore suggestione.
Vediamo allora di esaminare brevemente i caratteri fondamentali di
questa modalità di vedere e di rappresentare, che sembra
essere quella originaria. Per Leroi-Gourhan nell'arte delle caverne
agisce un linguaggio multidimensionale che si dispone nelle tre
dimensioni dello spazio o meglio si dispone a raggiera come il corpo
di un riccio o di una stella di mare. Siamo in presenza di
mitogrammi, in cui non vale la linearità della narrazione, ma
la condensazione e l'accostamento di ambiti che nella logica duale e
analitica siamo soliti differenziare.
All'origine dell'espressività estetica umana troviamo anzi
solo trattini o puntini, segni che si ripetono come se
contrassegnassero il ritmo e il pulsare del nostro cuore o del
respiro o quello del camminare. I simboli grafici, che più
oltre troviamo, sono il semplice scarabocchio che traccia tratti
morfologici che rimandano a un qualche oggetto, mentre quelli che
accompagnano i grandi animali, nell'epoca più vicina a noi, e
li contrassegnano, contraddicono l'interpretazione di realismo
grafico e ci avviano a una lettura mitologica. Si ipotizza che i
segni valgano nella loro autonomia di linguaggio, non abbiano una
funzione descrittiva, ma siano piuttosto il supporto di una
narrazione orale, che si inscrive all'interno di un mitogramma. E il
mitogramma é il modo arcaico del pensiero e della
rappresentazione, é il modo d'essere del pensiero mitico,
selvaggio, descritto da Levi-Strauss. Esso presenta i personaggi del
mito tutt'insieme, non strutturati linearmente e costruisce uno
spazio irraggiante, che invita l'occhio e la mente a un gioco di
opposizioni e di correlazioni tra l'immagine complessa e lo sfondo in
cui si delinea e tra le figure stesse.
L'arte delle caverne implica due spazi di rappresentazione: quello
degli animali e quello dell'uomo con linee, triangoli, punti (secondo
Barthes e Marty). La geometrizzazione della figura umana segnala
l'emergere del simbolico.
Il segno grafico conserva, anche più oltre, l'originario
carattere magico della notazione mitografica o ne reca a lungo la
traccia. La mitografia é la prima "scrittura", é la
scrittura arcaica e poetica che risale alle origini delle credenze e
a quelle del linguaggio. Attraverso disegni (che sono simboli),
collega i membri di una società tra di loro, con la ricerca di
una comune storia sacra. I disegni sono simboli etnici, che hanno
quindi una funzione comunicativa.
Il mitogramma é ancora largamente presente nelle nostre forme
di espressione e di comunicazione, in particolare nella
pubblicità. "Rendere l'idea della pace ponendo una donna sotto
un tetto apre una prospettiva mitografica perché
ciò non corrisponde né alla trascrizione di un suono
né alla rappresentazione pittografica di un atto o di una
qualità, ma all'assemblaggio di due immagini che entrano in
gioco con tutta la profondità del loro contesto etnico"
(Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola: 280).
Si tratta di un "bricolage" che in senso cognitivo mescola insieme,
utilizza e arrangia immagini e oggetti tratti fuori dal loro contesto
e uso specifico, realizzando incontri-scontri imprevisti e
sconcertanti per una logica lineare e sequenziale. L'accostamento che
ci sorprende e rompe la tradizione, e la suggestione da esso
provocata, o il vuoto e la mancanza stessa di un'esplicita
narrazione, mettono in moto l'immaginazione e invitano alla
fabulazione, aprendo così a percorsi possibili e illimitati. I
manifesti pubblicitari che utilizzano il mitogramma traggono infatti
"la loro forza e la loro durevolezza dalla tendenza del pubblico a
metterli in racconto, ad immaginare mille azioni e intrighi laddove
non c'é che qualche relazione stabilita e spazializzata"
(Floch, 1990: 223).
Il mitogramma é una interrogazione del mondo, una sua messa in
scena, che proprio perché ci coglie di sorpresa sembra a sua
volta guardarci e provocarci con il proprio carattere enigmatico.
Proprio perché il suo senso ci sfugge e non é
immediatamente dato, l'intelligibilità si situa alla giusta
distanza tra soggetto e oggetto.
Leroi-Gourhan qualificando come mitografia la pittura preistorica e
quella degli Aborigeni australiani, e, nella società moderna,
il manifesto pubblicitario, allarga il termine a comprendere ogni
produzione segnica che attraverso l'immagine e il grafismo esprime i
miti. Nel pittogramma, che sviluppa un raffinatissimo sistema
iconico, e poi nelle scritture ideografiche, che si sviluppano dopo
la pittografia viene meno questa complessità originaria,
questa multidimensionalità. Il grafismo della scrittura
é in rapporto con la motricità verbale ritmata:
é un gioco pulsionale del corpo e della voce che allontana dal
visivo e porta all'esteriorizzazione di simboli non concreti. Il
pittogramma é caratterizzato dalla linearità e rivela
in ciò il suo legame con la scrittura. Allinea infatti i
simboli in una determinata direzione. La costruzione di una sequenza
di immagini per rappresentare un'azione evoca lo scorrere del tempo,
in cui c'é un prima, un durante e un dopo. E certo sviluppa
anche un sistema di immagini connotato con denso significato
metaforico.
Mitogramma e pittogramma costituiscono non solo due modi di costruire
l'immagine, ma di due logiche, di due modi di pensare. Il primo
é sintetico e globale, l'altro é analitico e
concettuale. E tanto più lo é la logografia quali sono
gli alfabeti e i sistemi grafici di notazione del linguaggio, che
sono sistemi discontinui ed evolutivi, sempre più
astratti.
L'incantamento dell'immagine
Vediamo ora di esaminare la questione del "realismo" o del
carattere rappresentazionale delle immagini. L'uomo é un
essere della vista e dello sguardo. L'attività stessa del
sogno avviene nella forma della messa in scena, del figurale. La
sfera percettiva della rappresentazione ha carattere figurale,
é una messa in immagine, spazialmente, del mondo. E
costituisce 1'"essenza" rappresentativa del nostro pensiero e del
nostro linguaggio. Per questo é importante fermarci sullo
statuto della rappresentazione nel suo ambiguo riferirsi al processo
sensoriale e mentale costitutivo e all'oggetto rappresentato.
Fermiamoci innanzitutto sull'incantamento dell'immagine, da cui viene
il nostro assenso.
Lo specchio e l'immagine - U. Eco, interrogandosi
se l'immagine speculare sia o no un segno, se gli specchi siano o no
un fenomeno semiotico ci rimanda all'analisi di Jacques Lacan. Lacan
ritiene che si dia uno "stadio dello specchio" con il quale si
struttura il nostro corpo fantasmatico come unità non
frammentata.
Lo "stadio dello specchio" é posto da Lacan come un processo
di identificazione, che é presente nello stesso termine
imago . E' un'identificazione fondamentale ed é
la conquista dell'immagine, e cioè dell'immagine del corpo,
che struttura l'io prima che il soggetto sia entrato nella dialettica
dell'identificazione con l'altro attraverso la mediazione del
linguaggio.
La costituzione dell'io non si realizza immediatamente, ma richiede
la mediazione dell'immagine del corpo. E si realizza attraverso
quest'esperienza iniziale dello specchio, in cui sono determinanti il
simbolico e l'immaginario. Sembra infatti che il bambino non abbia
inizialmente esperienza del suo corpo come di una totalità
unitaria. Lo percepisce come dispersione delle sue membra, come
frammentato. L'unità del corpo non é quindi primaria,
ma si presenta come frutto di un lungo processo. Lo stadio dello
specchio viene collocato da Lacan fra i 6 e gli 8 mesi. In quel
periodo il bambino si confronta con la propria immagine allo
specchio. Dapprima confonde l'immagine con la realtà, poi si
rende conto che si tratta di un'immagine; solo nella terza fase
comprende, manifestandolo con gridi di gioia, che quell'immagine
é la sua. In questa "assunzione giubilatoria" dell'immagine,
il bambino ricostruisce i frammenti non unificati del proprio corpo,
ma é un corpo ricostruito come immagine esterna, in posizione
simmetrica inversa, come appunto mostra l'immagine.
Lacan sembra quindi suggerirci che la percezione del proprio corpo
come di una unità non frammentata e l'immagine speculare
vadano di pari passo. E quindi che "percezione, pensiero, coscienza
della propria soggettività, esperienza speculare, semiosi,
appaiono come momenti di un nodo abbastanza inestricabile, come punti
di una circonferenza a cui sembra arduo assegnare un punto di inizio"
(Eco, 1985: 10).
Questa padronanza immaginaria del proprio corpo é però
immatura rispetto alla padronanza reale: lo "sviluppo non ha luogo se
non nella misura in cui il soggetto si integra al sistema simbolico,
vi si esercita, vi si afferma tramite l'esercizio di una parola vera"
(Lacan: 107). Solo nella misura in cui si articola nella catena
significante l'immaginario diviene comunicabile. Va ricordato che
Lacan, escludendo la certezza della realtà, chiama 'simbolico'
ciò che é semiosico. Nell"'assunzione giubilatoria"
dell'immagine speculare é presente una componente simbolica in
cui l'io si precipita in forma primordiale e il linguaggio é
quello che gli deve restituire la propria funzione di soggetto
nell'universale. La restituzione nell'universale é propria di
ogni processo semiosico. In questo processo l'io speculare diviene io
sociale.
Dunque, possiamo da parte nostra osservare che lo specchio é
un fenomeno-soglia che segna i confini tra l'immaginario e il
simbolico. Lacan dice che ne dà "la regola di ripartizione".
La fase dello specchio ci fornisce dunque il criterio discriminante
tra l'immaginario e il simbolico. Mostra che, dietro la scena
immaginaria dello specchio e il riconoscimento che vi si realizza in
forma anticipata del corpo come Gestalt, si delinea la catena
simbolica. Dell'immaginario non si può dire nulla se non lo si
pone in riferimento alla catena simbolica.
La caratteristica dell'immagine speculare é il suo legame con
il referente. Essa é infatti determinata, nella sua origine e
nella sua sussistenza fisica, da un oggetto, un referente appunto. Lo
specchio, dice Eco, "nomina un solo oggetto concreto, ne nomina uno
per volta, e nomina sempre e solo l'oggetto che gli sta di fronte"
(Eco, 1985: 20). Questo aspetto fa la sua differenza con un segno,
che é sempre una categoria universale che, se anche designa,
non é legato al suo referente. Il segno é un universale
anche se può designare il singolo oggetto. E anche se i nomi
propri possono essere pensati come designatori rigidi (Kripke).
L'immagine speculare é invece un'icona assoluta nel suo legame
alle proprietà di un oggetto. Per Eco il nostro sogno
semiotico di nomi propri legato immediatamente a un referente viene
dal fascino che su di noi esercita l'immagine speculare. Il potere
incantatorio dello specchio é alla base della convinzione
profonda che l'immagine rappresenti la realtà, ne costituisca
una sorte di doppio.
Partiamo infatti sempre, secondo Eco, dall'idea che gli specchi
dicano la verità. L'esperienza che lo specchio ci offre
più che un'icona é un doppio, un doppio non
dell'oggetto ma del "campo stimolante cui si potrebbe accedere se si
guardasse l'oggetto in luogo della sua immagine riflessa" (: 18). E'
questa sua natura di doppio che fa la straordinarietà e la
singolarità di questa esperienza. E' la sua virtualità
di duplicazione degli stimoli, che opera una sorta di furto di
immagine, capace di duplicare il mio corpo-oggetto, e il mio
corpo-soggetto che sdoppiandosi si pone di fronte a se stesso.
Costituisce la tentazione che mi spinge a ritenermi un altro.
Dunque, subiamo il fascino della magia degli specchi, ne siamo
"prigionieri" in una sorta di incantesimo che trae origine
dall'originaria costituzione dell'immagine del nostro corpo ad opera
del nostro io. Dietro ad ogni immagine c'è questa esperienza
fondamentale. Questa esperienza nutre il sogno di icona assoluta per
il segno stesso e per le immagini con le quali tentiamo di fare senza
specchio ciò che lo specchio fa. Non ci sono segni analoghi
all'immagine speculare. Nessun segno può garantire l'esistenza
del suo referente, né la sua corrispondenza con un oggetto
specifico e non un altro.
Pensare e comunicare per immagini - L'uomo, abbiamo
detto, é un essere dello sguardo. La visione ha un'importanza
fondamentale e primaria e presiede al pensiero visivo o per immagini
che sta a monte e si differenzia dal pensiero concettuale. In esso si
collocano gli schemi figurali, una sorta di inconscio collettivo,
presente e operante in tutte le culture. Ad essi l'uomo ha attinto da
sempre gli elementi primi della sua vita cosciente. Le immagini
costituiscono sistemi raffinati e sofisticati quanto quelli dei
sistemi linguistici e concettuali e altrettanto complessi.
Le analisi recenti dei diversi tipi di rappresentazione e di
immagine, che sono state condotte dai diversi ambiti disciplinari,
hanno messo in luce l'aspetto selettivo della rappresentazione e i
suoi connotati conoscitivi concettuali, emotivi per i quali
l'immagine non é il doppio o il calco dei reale, ma un
processo cognitivo, e cioè una costruzione, che
crea una propria realtà o ci informa delle relazioni che
intratteniamo col reale, ed é pertanto un produttore di
significazione. Si tratta, dice G. Anceschi (1992: 11), "di un caso
di autocomunicazione" o anche "di una sorta di fertile simulazione".
"L'io informatore si maschera da oggetto informatore. O piuttosto
estroflette una parte di sé e instaura con lei un dialogo" (:
11).
La rappresentazione - L'immagine infatti non
é realtà, non perché sia meno reale della
realtà, possiede anzi la sua specifica realtà fatta per
esempio di carta, di colori, o di inchiostro, o di pietra, di segnali
luminosi o elettronici, di bit. Non é la realtà
perché é un segno della realtà. E un segno
é una realtà che ci rimanda a un'altra realtà,
anche se questa realtà non esiste ed é creata
dall'immagine stessa, come avviene nel mondo del fantastico e
dell'immaginario ad opera della moderna tecnologia, in cui l'immagine
é referente a se stessa.
Per quanto possa assomigliare, un segno non é l'oggetto di cui
é segno, é comunque un'altra cosa. Avrà rispetto
ad esso molte cose in meno e altre in più. Per esempio
può non avere la tridimensionalità o il colore, e avere
invece in più le linee nere di contorno, il taglio
dell'immagine.
In altre parole l'immagine riproduce alcuni aspetti o caratteristiche
dell'oggetto, attua cioè, rispetto al modo in cui lo
percepiamo, un processo di selezione di quegli aspetti che rendono il
senso di un oggetto. Privilegia certe caratteristiche che sono
importanti per ciò che vuole dire e le mette in evidenza. Il
suo scopo non é quello di creare immagini somiglianti, ma
immagini efficaci rispetto alle sue esigenze di comunicazione.
Riproduce per esempio le ombre e i contorni che sono sufficienti per
darci un'idea della figura, trascurando i particolari inerenti alla
figura.
Essa serve dunque a rappresentare, cioè a "mettere davanti",
rivolgendosi quindi alla nostra attenzione, o a farci vedere, o a
mettere in evidenza. E quindi é un far scoprire, un inventare
e ovviamente anche un deformare e mentire. Costruisce modelli, schemi
di mondi possibili.
L'oggetto della rappresentazione. L'oggetto della
rappresentazione é una costruzione e non un dato immediato,
é un concetto visivo che prende corpo in un significante. Ogni
rappresentazione é uno schema, una riduzione. E la semiotica
ha studiato fin dagli anni Sessanta i diversi tipi di
iconicità, proponendo diversi tipi di classificazione che
interessano il piano dell'iconicità e quello delle funzioni.
Per esempio identificando l'iconicità con la dimensione della
raffigurazione e questa nel figurativo, nei termini in cui astratto e
figurativo si oppongono, mostrando il progressivo schematizzarsi
dell'immagine fino a giungere all'essenzialità del
pittogramma. Facendo anche ricorso a una prospettiva percettologica o
a una geometria percettiva, che ridà importanza ai modi della
nostra percezione, come hanno fatto Arnheim e Kanisza e più
recentemente Massironi. I diversi tipi di disegno vengono cosi
connessi alla loro funzione comunicativa, che può essere
illustrativa, operativa, tassonomica. Il disegnatore infatti
seleziona i tratti in modo significativo come fa la percezione sulla
scena del mondo, o preseleziona, quindi sottolinea, carica o nasconde
e non mostra, guidando l'attenzione del destinatario e manipolando -
come fanno le figure retoriche - il corpo dell'oggetto.
Per concludere vorrei svolgere un'ultima osservazione anche se ovvia
perché risulta a ben pensarci paradossale. Noi siamo degli
analfabeti dell'immagine. Anche se l'immagine deborda nella nostra
vita di tutti i giorni e in tutti i suoi aspetti e il nostro mondo
é sempre e sempre più popolato di immagini, sempre
più iconico, pittografico e mitografico, permane nella nostra
cultura una sorta di pregiudizio e di abitudine logocentrica, che
continua a privilegiare il linguaggio verbale e la scrittura,
rendendoci ciechi o poco consapevoli di fronte all'immagine. Di
fronte all'immagine o rappresentazione vale un realismo ingenuo, che
collega direttamente l'immagine a eventi, processi, oggetti.
La critica attuale delle nuove epistemologie costruttiviste, di cui
Piaget é stato uno straordinario anticipatore, verso la
concezione rappresentazionale della conoscenza che é stata
dominante nella nostra cultura, ci fornisce strumenti utili per
comprendere, a partire dal disegno infantile, la rappresentazione e
l'immagine, nel loro valore cognitivo ed espressivo, che interessa
innanzitutto la crescita, la maturità e la creatività
del bambino e più in generale dell'essere umano. Le
rappresentazioni sono "simulazioni", "messa in relazione"; non si
dice niente del mondo, ma si dice il nostro rapporto con mondo e le
forme delle nostre categorizzazioni, o azioni o emozioni. Allo
sguardo del sorvolo delle epistemologie "cartesiane" che
contrappongono soggetto e oggetto, e pietrificano il mondo nel
realismo oggettivistico e mimetico, e fanno della conoscenza un fatto
solo mentale, il costruttivismo ci rimanda alla prassi corporea e al
nostro mondo esperienziale in cui ritroviamo anche il carattere
"erotico" o emozionale del nostro conoscere, riconoscendoci menti
incorporate. In esse comunicazione e gioco fanno tutt'uno.
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