Due sono gli assi massicciamente investiti dalle recenti riflessioni
sulle istituzioni scolastiche del Cantone Ticino. Più che con
progetti definiti, abbiamo attualmente a che fare con due
architetture in progettazione.
Una riguarda la gestione del disadattamento, con proposte di
modifiche operative concernenti una struttura relativamente nuova
quale il Servizio di Sostegno Pedagogico (SSP).
La seconda, tramite il ricorrente termine di "cambiamento", e
attraversando la creazione degli Istituti Scolastici, vuole
introdurre nuove modalità di lavoro circa il trattamento del
disadattamento, ponendo in particolare l'attenzione alla
necessità di passare da pratiche isolate, individuali e
talvolta estemporanee a pratiche condivise e strutturate in maniera
unitaria. Talvolta tuttavia non si capisce esattamente cosa deve
cambiare. O cosa é cambiato. Allo stesso tempo mal si
comprende come gestire le difficoltà o le resistenze al
cambiamento.
La scuola ticinese, ma potremmo dire la Scuola, é chiamata
a riprodurre ciclicamente, con sforzo notevole, strategie di
controllo o di gestione del disadattamento.
Attorno a questo concetto, si situano un numero ragguardevole di
interventi e di pratiche che purtroppo creano o hanno creato
confusioni. A questo riguardo, fra molti elementi, basti ricordare
l'indifferenziazione che talvolta si incontra nel concepire i
concetti di disagio, di disagio scolastico, di disadattamento o
d'insuccesso scolastico; oppure ricordare la difficile comprensione
delle dinamiche d'acculturazione che vivono le famiglie di parte
degli utenti dei SSP; oppure le uguaglianze sinonimiche delle
rappresentazioni di "sostegno" e di "ricupero"
L'assenza, nel passato, di un luogo di discussione esterno al SSP
delle dinamiche del disadattamento, come del disagio, ed anche dei
concetti ad essi relativi, é forse la causa di tali
confusioni. La creazione degli Istituti viene forse quindi a colmare
un vuoto.
Appare allora evidente che la necessità di una
discussione e di un approfondimento appare a vari livelli e le
strategie di gestione del disadattamento portano immediatamente a
riflettere su alcune sue coordinate o assi critici:
nella necessità metodologiche e teoriche;
nella necessità di chiarirlo nelle sue coordinate etiche,
sociali, culturali; ma anche nella necessità di mantenere una
unità soggettiva del docente, che si sente frantumato dalle
esigenze multi dimensionali della realtà scolastica.
Sono "necessità" che investono quindi frontalmente il terreno
del cambiamento.
E' altrettanto evidente che tali questioni si situano in un terreno
che può essere raffigurato come una nebulosa. Nella
organizzazione del nostro seminario (e nel presente volume) non
abbiamo la pretesa di affrontarne e risolverne tutti i frammenti e
tutto il suo pulviscolo gassoso. Tratteremo solo alcuni aspetti,
convinti che un approfondimento si può operare solo nella
continuità e, sopprattutto, abbandonando le idee
dell'eccezionalità del disadattamento: assumendo un nuovo
paradigma per quanto concerne la sua osservazione. Quello della sua
ricorrenza continua, del suo continuo fluttuare, andare e tornare
sotto nuove spoglie della sua esistenza, infine, come norma, come
condizione stessa dell'apprendimento.
Quando mediamente il 12% dei bambini sono seguiti dai SSP, quando
un'altra buona parte di bambini fruisce dell'insegnamento per
alloglotti, superiamo abbondantemente i limiti
dell'eccezionalità e della "pedagogia clinica". Il contesto, i
contesti, che determinano tali percentuali, sono sociali, sono
culturali ed economici - ricordiamo che i servizi di sostegno erano
stati concepiti come luoghi di intervento positivo oltre che di
democratizzazione della scuola -. Pertanto il compito dell'operatore
di sostegno e della Scuola non é dei più semplici.
Gli strumenti di cui deve appropiarsi raggiungono forzatamente
più territori.
In primo luogo, oltre a costruire degli strumenti pratici
d'intervento si tratta di costruire anche degli strumenti teorici; in
secondo luogo, oltre ad essere "clinici" (cioè correlati ad un
intervento individuale, sia didatticamente, ma anche concettualmente)
questi devono concepire il gruppo; in terzo luogo, oltre ad essere
pedagogico-didattici questi strumenti devono essere etici,
antropologici, sociali, psicologici, ecc
La necessaria specializzazione crescente nel campo "tecnico"
dell'educazione, quale si é verificata in questi anni, per
esempio, con il crescere della didattica della differenziazione,
oppure con le nuove metodologie d'insegnamento della letto-scrittura
(a partire degli studi di Emilia Ferreiro e altri) e della matematica
(vedi Brousseau per citare un autore attuale), investe solo
tangenzialmente le dinamiche sociali dell'educazione e tutti gli
strumenti ventilati.
E quei strumenti sono altrettanti vettori di cambiamento.
Parliamo molto e quasi sempre di strategie, ma la riflessione
sulle rappresentazioni é assente o quasi (non mi riferisco qui
allo studio di W. Minoggio "Le rappresentazioni sociali del
disadattamento scolastico" , DIC, Bellinzona,1991, che, oltre
a analizzare le rappresentazioni del disadattamento scolastico ha
valutato le disfunzioni della sua gestione. E in questo senso, nella
scuola, il secondo aspetto ha oltrepassato il primo, rimuovendolo.
Questo studio é diventato la base per una modifica delle
modalità di gestione del disadattamento e dell'organizzazione
del SSP ancor prima di essere base per un confronto e approfondimento
delle rappresentazioni del disadattamento).
La situazione attuale può essere grezzamente così
delineata. Vengono definite modalità di gestione,
responsabilità, ecc ma gli operatori, educatori, docenti,
quadri, non possiedono una mappa condivisa delle marginalizzazioni in
atto nella scuola ticinese. O, potremmo dire, non esplicitano le loro
rappresentazioni dei disadattamenti!
Se e quando c'é un possesso delle mappe, queste si situano
nell'ordine delle individualità. Perché:
1) troppo sovente trattano del disadattamento in termini clinici;
2) troppo sovente non sono condivise con gli altri operatori.
Le rappresentazioni della marginalizzazione sono individuali e
implicite.
Potremmo allora chiedere: come, quando, perché dobbiamo
co-costruire delle rappresentazioni esplicite?
Infine, potremmo traslare il luogo del disadattamento: da esterno al
docente (un bambino problematico, una categoria nosografica a
rischio, ecc ), che non mette in questione la sua Weltanshaung a
interno (il docente "disadattato" dall'insorgere contemporaneo di
tutte quelle dimensioni di cambiamento, nella popolazione scolastica,
nelle emarginazioni familiari, nelle esigenze pedagogiche, ecc ).
Per esemplificare la prassi della multiculturalità é di
notevole potenza euristica, relazionale e sociale, perché in
un futuro può scalfire la pratica di omogeneità di
procedure adottate decennalmente! Il paradigma multiculturale, da
risposta all'emergenza delle emigrazioni, sta diventando metafora per
il lavoro regolare con il gruppo classe! Non si considera più
il bambino straniero, portatore di differenze esotiche, alloglotta,
come oggetto-soggetto della "distanza culturale" , unico
beneficiario dell'aggiornamento pedagogico. L'agglomerato scolastico
é sempre stato composto da individualità
sovente molto più differenti tra loro di quanto non ci lascino
fantasmare gli immigrati dell'ultima generazione. Semmai si tratta di
sapere come mai sin'ora queste sono state schiacciate da dinamiche e
pedagogie uniformanti.
La condizione multiculturale sta diventanto la stessa condizione
reale di esitenza delle scocietà occidentali post-moderne.
C'é un cambio paradigmatico, o vettoriale (di direzione)
nelle preoccupazioni della scuola? Ciò corrisponde a una
necessità di modifica o di esplicitazione della sua
finalità?
Cerco di spiegarmi riferendomi ai "programmi per la scuola
elementare". Cito.
"Operando per la formazione dell'individuo, l'insegnante della
scuola elementare si trova nella particolare condizione di chi inizia
un lavoro senza poterne vedere la fine. Sa, però, che molti
degli sviluppi successivi dipendono dalle premesse che lui stesso ha
posto. Di qui il dovere di riprendere l'azione educativa iniziata
dalla famiglia ".
Questa visione, di continuità educativa tra famiglia e scuola,
non naviga in una concezione eccessivamente "armoniosa", romantica, o
magari naïf della stessa continuità?
La realtà cui siamo quotidianamente confrontati ci sembra
legittimare l'interrogativo. I docenti operano sempre più tra
rotture e discontinuità. Altro che "continuità
educativa"! Ci troviamo costantemente dinnanzi a degli incroci (e
talvolta in piena crisi soggettiva): tra necessità di
chiarezza metodologica e differenziazione degli interventi; tra
modelli statici, impliciti e "omogenei", del disadattamento e
molteplicità delle sue manifestazioni; tra esigenze di
omogeneità e multidimensionalità operativa.
La locuzione "armoniosa continuità" ci sembra dunque
anacronistica.
Le finalità della scuola definiscono tutta una serie generosa
di obiettivi: "sviluppare le facoltà" dell'allievo,
"perfezionare la consapevolezza della dignità, della
libertà e della cultura", "promuovere la volontà di
progredire nel sapere", "sviluppare la personalità
dell'allievo", vuole porre obiettivi per l'educazione affettiva e
relazionale, per il rispetto delle norme della vita sociale, ecc
finalità tanto più difficili quanto più le
popolazioni differiscono per sistemi di valori e esperienze.
Queste meriterebbero altrettante attenzioni e luoghi di
programmazione specifica, come descritto per l'italiano, la
matematica, ecc
Il cambio paradigmatico si situa dunque tra concezioni di
continuità e concezioni di frattura.
Non é forse un riconoscimento delle contraddizioni culturali,
sociali e economiche e della scomposizione dei valori e delle norme
che scuola, famiglia e agenzie di socializzazione si ritiene
trasmettano ai nuovi membri della società ?
Come, quando e perché avvengono questi cambi? Vediamone gli
elementi.
L'assenza di una topologia del disadattamento (di una descrizione
delle sue sacche nella scuola) comporta una reificazione del suo
concetto. E' forse da descrivere nelle sue dimensioni, come nelle sue
genesi. Deve essere "misura" delle distanze o bisogna farne una
storia? Oltre che delle mappe?
Se questo concetto deve mantenere la sua dinamica bisogna pure sapere
come cambia la popolazione scolastica, cosa cambia nei referenti
parentali (culturalmente, socialmente, economicamente). L'idea di
omogeneità (o il desiderio di omogeneizzazione) fa parte di un
mito (che porta al nazionalismo e/o all'integralismo).
Il rischio é di adottare delle tipologie familiari
anacronistiche slegate dalle molteplici realtà migratorie e
dalle marginalizzazioni in atto, dal maltrattamento e dalla
povertà; di utilizzare, ancora una volta, rappresentazioni
implicite che cozzano contro i risultati del proprio lavoro; la
frantumazione della propria professionalità e della propria
soggettività in pratiche scollegate, contraddittorie,
conflittuali e magari disadattate.
Se introduciamo un concetto di disadattamento, da qualche parte si
ha l'idea che la popolazione non é più omogenea (se mai
lo é stata). Se siamo d'accordo che questi deve poter essere
colto nella sua storia dobbiamo poter definire un osservatorio. Come,
dove costruire questo osservatorio? Quali sono i costi/guadagni
soggettivi della co-costruzione
(collaborazione-équipe-istituto)?
La delega del disadattamento, l'irregolarità delle
collaborazioni, la loro iscrizione in ambiti di sola emergenza ecco
altrettanti elementi che non favoriscono un approfondimento. Da
pratica dell'eccezionalità, l'intervento contro il
disadattamento deve diventare pratica quotidiana, perché
quotidiani sono gli elementi di rottura e di crisi, come quotidiane
sono le crescite degli allievi.
Il disadattamento non é eccezione é norma.
Ciò implica un cambio decisivo di prospettiva: a livello
metodologico, a livello teorico e a livello culturale.
Dove situare rispettivamente continuità e rottura nella
quotidianità del lavoro educativo?
Allora se tali sono alcune delle coordinate del cambiamento e del
disadattamento proviamo ad elencare alcune domande alle quali dovremo
riflettere in futuro. Domande che al momento attuale resteranno
aperte e che potrebbero però portare ad altrettanti filoni di
ricerca.
Sulla topologia delle marginalizzazioni in atto. Quali sono il
luoghi, l'economia e i meccanismi, che non sono solo intrapsichici e
individuali, che creano e producono disadattamento in un contesto
sociale-educativo?
Continuità e rottura. Come, quando e dove avvengono le
fratture? Dove ricostruire la continuità? Con la certezza che
la continuità non si potrà trovare appagando desideri
di ricostruzione della omogeneità?
Se é vero che dobbiamo co-costruire, co-llaborare, ecc quali
sono le istanze intrapsichiche, individuali, sociali, economiche,
giuridiche (di controllo) che permettono la condivisione? Oggi
viviamo rotture. Gli esempi di scontro, disaccordo di distruzione o
desertificazione dell'altro non sono solo presenti nei recenti
dibattiti politici. L'individualismo e la competizione sfrenata non
sono dei vettori che vi si contrappongono?
il soggetto che deve operare nelle dimensioni descritte non rischia
un disadattamento? Cosa significa traslare il luogo del
disadattamento da esterno (l'allievo) a interno?
l'insegnamento della/alla multiculturalità é stato
visto, é ancora visto, da un lato come emergenza, da un altro
come luogo definito dallo straniero. M. Foucault, "Sorvegliare e
punire", "Le parole e le cose", ecc ci mostra come la definizione
dell'altro é una maschera che nasconde l'assenza di una
definizione interna. Per gli operatori della scuola la definizione
dell'altro ha forse servito per dimenticare un'auto-osservazione e
quindi forse proporre tecniche di controllo piuttosto che di reale
integrazione. Non é l'ora di trasportare questo approccio sui
seguenti binari:
- in classe (ma non solo!) la differenza é norma?
- la definizione della differenza deve inglobare tutta la popolazione
scolastica?
é vero che l'individualismo permette concorrenzialità
ma porta alla disgregazione della coesione sociale. C'è una
nuclearizzazione e individualizzazione degli apprendimenti (nella
didattica della differenziazione) ma genericità e
superficialità sugli aspetti più generosi. Invece che
continuità e coesione il rischio é di sviluppare solo
individualismo e competizione (Cfr. il mio testo
"Differenziazione dei programmi e prossimalità
dell'apprendimento" , documento di lavoro équipe di
sostegno 6 circ. S.E., Locarno, 1996). Se facciamo una valutazione, a
livello economico, l'individualismo e il mancato sviluppo degli
elementi di continuità (vedi i programmi della scuola
elementare) comporta dei costi (sociali, economici)?
la società attuale é sovente descritta come foriera di
violenza e maltrattamenti. I media non cessano di dirci che sono in
aumento, così come la conflittualità sociale in
generale.
Come interpretare le cause di questi fenomeni?. L'idea della
continuità ("romantica") é un principio dichiarato, ma
é un mito: non c'é più condivisione su cosa deve
continuare. Questa assenza di continuità non crea problemi
giuridici? Il SSP (e la scuola) sono luoghi di prevenzione? In quale
maniera?
Come già descritto, attraversando questi temi (questi
territori) gli approfondimenti da operare sono molti. Le domande qui
presentate non possono essere tutte assunte; queste devono servire
solamente ad indicare alcune direzioni di ricerca.
Locarno, gennaio 1996
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